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I Calafatari


Sono qui, davanti al mio computer, mentre scrivo un nuovo racconto.
Tutto intorno è silenzio, silenzio e quiete.
Angoli di polvere e di buio mi circondano, non un sospiro nella stanza, tutto nella mia mente, un rumore sordo si avverte solo quando sbatto il pugno forte sul piccolo scrittoio, che richiama nell’assoluta semplicità un arredamento quasi francescano, da uomo di preghiera.
Il mio gesto di stizza ha provocato il crollo di una pila di libri e fogli di carta, pieni di numeri e frecce che formano una specie di diagramma di flusso.
Sono a corto di parole.
Inizio sempre così i miei tentativi di scrittura, il protagonista dei miei racconti finisce irrimediabilmente a fare un viaggio nella mia mente, poi trova la porta della memoria e la domanda è: “si entra o si è appena usciti ?”
In un testo normale questa piccola amnesia sarebbe risolta dal solo retrocedere di una pagina, sbirciando le ultime righe, ma non nel mio racconto siciliano.
Sono frastornato, certi giorni sono opachi come la nebbia che si forma nelle vallate alle prime ore del mattino in attesa dei primi raggi di sole che la faranno svanire.
Altri giorni sono come il mare, ti tuffi e finisci inevitabilmente sott’acqua, sei senza ossigeno, destinato a vivere in apnea. Le terre emerse sono le sagome scure che intravedi dal basso, ma che sei incapace di distinguere.
Quella figura alta: una persona o una torre prima del crollo?
E quella curvatura? Una collina o la gobba di un cammello?
Detta così, sembra davvero difficile che, guardando dall’oblò appannato della nostra vita quotidiana, riusciamo a distinguere la realtà.
E’ quasi vero. A volte penso che viviamo per interposta persona perché non siamo capaci di essere noi stessi in ogni momento della giornata, in ogni momento della nostra esistenza. Signori si recita! – ognuno ha il suo ruolo – facciamo parte tutti di un grande e complesso racconto infinito. Ad ognuno la sua parte, c’è l’amico vero, c’è il traditore, c’è l’altruista, c’è il filosofo, c’è il lecchino, c’è chi fa se stesso e chi fa la brutta copia di se stesso ecc.
Ognuno appare come vorrebbe essere ma dentro, nel profondo dell’anima, c’è la fogna.
Lunghi canali intasati di sterco che, scorrendo dentro le vene, si distribuisce uniformemente attraverso le nostre parole concimando la vita.
Apparire, mostrarsi, evidenziarsi per poi soffrire quando si è soli con se stessi mentre si fa finta di divertirsi con gli altri attorno ad un tavola imbandita. Non voglio morire e rivado indietro nel tempo attraversando la soglia di una porta che mi conduce in un “posto delle fragole” regno incontrastato della mia adolescenza, un piccolo cantiere navale, “i calafatari”, dove si costruivano barche da pesca, situato nel porto piccolo di Siracusa. 
Mi fermavo li ogni volta che, facendo ritorno da scuola in Ortigia, rientravo nella mia vecchia casa alla “Borgata” in via Caltanissetta. Uomini, simili a statue di Fidia nella loro bellezza antica, stanno lavorando ed io li osservo.
I loro gesti, canonizzati da generazioni, mi conducono in uno stato di trance mentre un essere scuro che si profila dal buio del suo luogo, abbatte il martello sul ferro incandescente e dalle tenebre sprizzano scintille primordiali.
Eccolo, mentre da origine ad un nuovo universo formato da miriadi di stelle che rimangono sospese per aria per un breve attimo effimero come la vita di una farfalla.
Lui è il Creatore. E rimango estasiato a guardare immobile, come un coniglio abbacinato dai fari un auto, mentre il tempo scorre inesorabilmente giorno per giorno all’interno di quel fondaco.
E l’uomo avvolto in una maestosa nuvola di fumo mi guarda e non dice nulla ed io lo osservo in silenzio e sono dentro la fucina dove il Dio Vulcano sta forgiando l’invincibile scudo di Achille.
Mi sento in sincronia con l’universo, i mio cuore e il suo battono all’unisono. Silenzio assoluto: poi la cadenza ritmica dei colpi dell’ascia di un uomo che sta modellando la chiglia di una barca, da un’informe tronco stagionato da anni di sole e di pioggia, mi fa trasalire trasportandomi nel mio tempo attuale.
Fragore assordante: il viaggio è finito, sono di nuovo in questo mondo che non mi appartiene.
I ricordi sono prevalenti e le speranze vengono a mancare, devo continuare a scavare nella miniera dei miei ricordi, finché le forze me lo consentiranno, per estrarre l’oro da lasciare in eredità a chi mi vuol bene.
Ho letto da qualche parte che una persona che scrive è come un minatore: invece di attraversare la vita e passare oltre si ferma di continuo e scava, cerca di rintracciare i percorsi, gli strati, i motivi nascosti. Naturalmente tutto ciò è pericoloso, e lo è, soprattutto perché dopo che hai cominciato è impossibile smettere.
Scrivendo accresci le tue nevrosi: puoi prestare i tuoi difetti peggiori a un personaggio, amplificare un lato del tuo carattere, nasconderne altri, sviluppare aspirazioni nascoste, sperimentare vite parallele, tornare indietro, azzerare tutto. Poi quando finisci di scrivere, non sei guarito né diventato migliore.
Hai solo spostato il peso dei tuoi pensieri su qualcun altro, per un po' di tempo.
Il tempo necessario per riprendere fiato prima di ricominciare a vivere.

Autore: Concetto Scandurra – Pescara © Copyright 

Commenti

  1. Sono riflessioni di un'adulto che non teme la verita,consapevole che i "labirinti" ce li portiamo dentro e sin che si vive,é duopo cercarne le briciole che altri han lasciato e,che, ora sono mescolate alle nostre. Separarle?... Impossibile. Tutto é indistintamente connesso e destinale per l'immenso quadro del quale dobbiamo interpretarne la parte che,per quanto possa essere piccola,é pur sempre la totalità del nostro centro. Mirka

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