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Password: Tenebra

Angoli di polvere e di buio, tutto intorno è silenzio, silenzio e quiete, ragnatele e segni del tempo che immutabile trascorre quieto dentro la cantina. Una scala, polverosa, osserva dall’alto dei suo gradini l’infinita impotenza del piccolo omino di fronte alle grandi botti costruite dal padre più di cento anni fa. 
Non un rumore nella cripta che protegge un liquido pregiato e non preziose reliquie. Apro il rubinetto di una botte che maestosamente mostra la sua storia, sorseggio il vino denso, tenebroso come piace a me, come il sangue che scaturisce dal collo della vittima sacrificale immolata agli dei. 
E la password è il vino, che ci permette nel chiarore della sua trasparenza paglierina di portarci verso mondi colorati di rosso o nero come tenebra. Non voglio morire e rivado indietro nel tempo attraversando la soglia di una porta che mi conduce in un “posto delle fragole” regno incontrastato della mia adolescenza, un piccolo vigneto, dove si coltivava una vite che produceva grappoli di uva nera e preziosa come fossero rubini, situata nella campagna di mia nonna in una città siciliana di cui non dico il nome. 
Uomini, simili a statue di Fidia nella loro bellezza antica, stanno lavorando ed io li osservo. I loro gesti, canonizzati da generazioni, mi conducono in uno stato di trance mentre esseri scuri, come statue di bronzo, si profilano dal buio della mia memoria abbattendo i loro piedi come martelli sui chicchi incandescenti. 
E’ come ferro battuto dal fabbro e sprizzano scintille primordiali di luce e di rigagnoli di vino. Eccoli, mentre danno origine ad un nuovo universo formato da fiumi di liquido rosso misterioso che disperde un profumo simile a quello di miriadi di stelle che rimangono sospese per aria per un breve attimo effimero come la vita di una farfalla. Loro sono i Creatori, sono i vendemmiatori. E rimango estasiato a guardare immobile, come un coniglio abbacinato dai fari un auto, mentre il tempo scorre inesorabilmente sotto il sole cocente siciliano che si abbatte su di me. E l’uomo avvolto in una maestosa nuvola di vapori odorosi ed inebrianti mi guarda e non dice nulla ed io lo osservo in silenzio e sono dentro la fucina dove il Dio Vulcano sta forgiando un calice che forse un giorno sarà il Graal che conterrà il vino, sangue di Cristo. 
Mi sento in sincronia con l’universo, i mio cuore e il suo battono all’unisono. Silenzio assoluto: poi la cadenza ritmica dei colpi dati con la pianta dei piedi che modellano mucchi di uva ormai informe che si sta sacrificando per generare un liquido che da la vita. L’urlo di gioia di un uomo mi fa trasalire trasportandomi nel mio tempo attuale. Fragore assordante: il viaggio è finito, sono di nuovo in questo mondo che non mi appartiene. I ricordi sono prevalenti e le speranze vengono a mancare, devo continuare a scavare nella miniera dei miei ricordi, finché le forze me lo consentiranno, per estrarre l’oro da lasciare in eredità a chi mi vuol bene.

Chi scrive è come un minatore: invece di attraversare la vita e passare oltre si ferma di continuo e scava, cerca di rintracciare i percorsi, gli strati, i motivi nascosti. Scrivendo accresci le tue nevrosi: puoi prestare i tuoi difetti peggiori a un personaggio, amplificare un lato del tuo carattere, nasconderne altri, sperimentare vite parallele, tornare indietro, azzerare tutto. Poi quando finisci di scrivere, non sei guarito né diventato migliore. Hai solo spostato il peso dei tuoi pensieri su qualcun altro, per un po' di tempo. 
Il tempo necessario per riprendere fiato e di bere un bicchiere di vino rosso, denso, tenebroso, prima di ricominciare a vivere.

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